DA
«IL SUONIVENDOLO»
con prefazione di Alfredo Baccelli
I edizione 1939 (G.Carabba Editore – Lanciano)
Geppo Tedeschi è troppo noto per aver bisogno di prefazione.
Se mai, ad ogni modo, poteva chiederla a Marinetti che à messo in bucato le vecchie immagini e à disteso le nuove cordicelle della fantasia futurista.
Chi à ridipinto tutti i vecchi magazzini della memorie era il più adatto per uno squillo di tromba .
Comunque, poiché Geppo à battuto alle porte del vecchio tradizionalista, che per altro à sempre respirato volentieri una boccata d’aria nuova , eccomi qua.
Sul vecchio e sul nuovo, sui confini prescritti dalla ragione all’originalità, su gli errori degli estremisti e su quelli delle ostriche attaccate allo scoglio accademico, su certe necessità armoniche e temperate dell’arte ma sulle altre necessità di spalancare porte e finestre per far entrare aria buona e cacciare il tanfo di chiusiccio si potrebbero scrivere volumi.
E tutti rimarrebbero egualmente della propria opinione. Io non bado né a scuola, né a metodi.
Mi domando solo : porte Geppo Tedeschi nel suo sacco la bottiglia dell’Elisir?
Se sì, qualunque scuola è buona: e se a scuola è nuova anziché vecchia, tanto meglio. L’odore di nuovo fa bene all’umore ed alla salute.
Signori miei, senza tante storie : Geppo Tedeschi è un poeta!
Sensibilità squisita, immaginazione ricca e fresca successione delle idee imprevista, come vuole la fantasia, che, se è forte, scavalca al primo salto la ragione, quando voglia salire in groppa.
E parole che son colori, ritmi che sono musica.
Mi direte: E tu perché scrivi diversamente? Diversamente? Si, forse ma fino a un certo punto.
E poi io sono nato nel secolo scorso, e , pure, per poter dire tutto ciò che mi pareva e piaceva, liberamente, ò inventato Tatiana ILITCH.
Consiglio ai poeti tradizionalisti di salire un mese sulle montagne di Calabria : un mese a respirare aria di Geppo Tedeschi.
Ritorneranno a casa rimessi a nuovo come dai bagni di Gastein. Del resto, «Il Suonivendolo», come il titolo insegna, non à pretese ed è stato scritto a ventidue anni.
Cose, perciò, in gran parte, vecchie.
Ma io mi son divertito molto a leggerle; e credo che si divertiranno anche gli altri: che se qualche Aristarco torcesse il muso, si rifaccia con messer Pietro Bembo, e non avrà bisogno di veronal per dormire ventiquattr’ore di seguito.
Chi voglia salire di quota, legga «Corticircuiti».
Alfredo Baccelli
La stazioncina meriggia
In un dolce dormiveglia
la stazioncina
vestita di grigio
seduta vicino alla linea
ferrata
con la visiera
calata,
si beve il sole
del pomeriggio.
E il capostazione,
col berretto color rubino
come la testa
di un cerino,
fa l’altalena ai suoi pensieri.
Uno strillone dorme,
col suo fascio di carta
sui ginocchi.
Dorme ed à sopra gli occhi
sogni d’un mondo informe.
Mezzogiorno intontito
Pochi fulmini ànno intontito
il tepente mezzogiorno
che dispensava dalla veranda
d’una pensosa giornata
giornata d’autunno,
elemosine di sole
all’ospizio dei poveri
vuoto di giovinezza
e di parole.
Ora leggere
aprono l’ali,
tra le note musicali
d’una campana,
poche gocce d’acqua piovana
che riflettono, come uno specchio,
pampini e campi color d’oro vecchio.
Ultima mostra di sole
Sulla grondaia
vecchia
seduta
la prim’acqua
di settembre
affreddolita
rispecchia
la siepe
che lì presso
le parla
sempre lo stesso.
Qualche grappolo d’uva
svetta
dai pampini materni
col suo sorriso
di mosto
e il sole
sempre fermo
al suo posto
già l’intonaco
cuoce ed arrosto
delle case
innestate
tra loro
del verde pianoro.
Dentro le canne
della mia giovinezza
io soffio a tutto fiato
disorientato
cercando come un mendico
senza un cane
d’amico
un tozzo
magari ammuffito
di scialba felicità.
Nuvole e vento
Passato il temporale
il vento à messo
ad asciugare,
sul filo glauco
dell’orizzonte,
le nuvole
che venivano dal monte,
tutte bagnate
ed arruffate .
Le à messo
vicino a un raggio
di sole
che dormiva, piano,
sopra un covone
di grano.
Ed ora asciutte
le stira le pulisce
tutte.
E, diafane
come farfalle,
se le carica
sulle spalle
e se le porta via
con faciloneria.
Umidità c’è nel mio cuore
Fregai stamane
i fiammiferi dell’allegria
sulla scatola
della mia fantasia,
e non mi accese nessuno.
Trasalii.
Avvoltolai parole su parole
d’ira come di suole.
Disfatto alfine
il misero involtino
della mia pazienza
fregai e rifregai senza
pietà sempre però…
la loro testina nera
Ahimè rispose no!
Quello che o’ io
I miei avi, molto tempo fa,
seccati di stare sempre qua
si misero un giorno
il vestito di festa
il cappello nuovo
in testa,
montarono sulla diligenza
forte
della morte
e come fu
e come non fu non tornarono più.
A me lasciarono un parapioggia
dalla veste
un po’ roggia.
A settembre lo spolvero anch’io
Sereno d’avere nel mondo,
almeno, qualcosa di mio.
Il sagrestano pazzo
O’ visto sorridere
i quattro gradini
della chiesa
per sagrestano
che impazzito
a tutto fiato
soffiava
disorientato,
per spegnere
la prima stella
che s’era accesa
sulla cuspide
del campanile
nel vespero d’aprile.
D’innanzi alla casa del buon Dio
ò riso anch’io.
A modo nostro
La brontolante acquata
cessata è per incanto.
Ora sul cielo sereno
ride
l’arcobaleno
pletorico imbianchino
di villaggio
che pittura
la pallida faccia
del paesaggio
macchiando a tratti
per distrazione,
qualche riquadro giallo di granone.
Il fiume
Povero suonatore
di fisarmonica,
il fiume
sotto un cielo di bitume,
passa e ripassa affezionato
tra un gruppo di case gialle
come la polenta
che la perpetua
attenta
prepara al suo curato.
Passa annusandole tutte
come un cane
da pastore.
E nessuno gli fa caso.
E’ l’amico di tutti.
Se splende il sole
si vena d’argento
e se lo increspa il vento
trema dimesso
seguendo
sempre lo stesso
il suo cammino
in attesa di sostare
dove tutto è piccino.